Autore: Prof. Marcello Mele

Nuove acquisizioni scientifiche sembrano scuotere dalle fondamenta il ruolo nutrizionale di latticini e formaggi

Nei paesi ad economia avanzata l’incremento dei casi di Obesità, Malattie cardiovascolari e Sindrome Metabolica, osservabile anche nelle fasce di età più giovani, sta destando forte preoccupazione nelle istituzioni sanitarie. Per far fronte a questo problema molti paesi hanno elaborato strategie di educazione alimentare, che si articolano in vere e proprie linee guida per una sana alimentazione, al fine di migliorare le abitudini alimentari dei consumatori e diminuire l’incidenza delle patologie sopra citate, con conseguente sgravio delle spese sanitarie. Nell’ambito di queste linee guida, al latte e ai latticini viene riconosciuto un ruolo importante, in funzione del significativo contributo che tali alimenti apportano in termini di nutrienti indispensabili al regolare sviluppo corporeo e al mantenimento di un soddisfacente stato di benessere. A riprova di ciò, sia in Italia che in Francia il consumo consigliato di latte e yogurt è pari a tre porzioni giornaliere. Questa omogeneità di valutazione, tuttavia, non è riscontrabile per i formaggi (sia freschi che stagionati) che, nelle linee guida francesi, sono assimilati al latte e allo yogurt, mentre in Italia sono considerati a parte e se ne consiglia un consumo limitato a due, tre volte la settimana (a seconda del grado di stagionatura).
Perché questa differenza? Uno dei motivi che forse può spiegare una certa cautela nella collocazione dei formaggi nella formulazione di una dieta nutrizionalmente corretta, è probabilmente legato al ruolo controverso che il grasso del latte riveste a tutt’oggi nel campo della nutrizione umana.

Grassi saturi e colesterolo

Dove nasce questa diffidenza rispetto ai formaggi che concentrano in sé una buona parte del grasso del latte? La risposta va cercata nel fatto che una parte quantitativamente importante del grasso del latte è costituito da acidi grassi saturi che, fin dai tempi degli studi pioneristici di Ancel Keys a cavallo degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, sono considerati altamente correlati con l’innalzamento delle lipoproteine plasmatiche a bassa densità (LDL) e l’innalzamento del rapporto LDL/ HDL e, pertanto, con l’aumento del rischio di incidenze delle malattie dell’apparato cardiocircolatorio (CHD). Per questo motivo le indicazioni nutrizionali di numerosi paesi sviluppati raccomandano di contenere l’assunzione di acidi grassi saturi entro il 10% delle calorie assunte giornalmente con la dieta. Le raccomandazioni nutrizionali riservate agli individui con valori alti di colesterolo, inoltre, prevedono, nella maggior parte dei casi, severe restrizioni o addirittura il divieto nel consumo di prodotti lattiero caseari, con particolare riferimento ai formaggi stagionati e semi-stagionati. Negli ultimi anni, tuttavia, nuove acquisizioni scientifiche sembrano scuotere dalle fondamenta il ruolo nutrizionale sia degli acidi grassi saturi, sia del formaggio, che da sempre è stato associato a questo tipo di nutriente.

Non solo acidi grassi saturi

Definire il grasso del latte e dei formaggi semplicemente in funzione della loro frazione satura è sicuramente un criterio limitante e che non tiene conto né delle numerose altre componenti lipidiche, che svolgono un ruolo riconosciuto nella prevenzione di numerose patologie umane, tra cui le CHD (“Coronary Heart Desease”), né del fatto che grazie all’evoluzione delle conoscenze nel campo delle tecniche di allevamento e della nutrizione animale, oggi è possibile modificare profondamente la composizione del grasso del latte in maniera del tutto naturale. Una valutazione oggettiva del latte e dei formaggi come alimenti, pertanto, non può prescindere da una conoscenza approfondita della loro frazione lipidica in tutte le sue componenti, potenzialmente positive e negative. Il grasso del latte rappresenta probabilmente una delle matrici lipidiche più complesse in natura e quello del latte dei ruminanti lo è ancora di più se raffrontato al latte di altre specie di mammiferi. Se da un lato è innegabile che gli acidi grassi saturi rappresentino la frazione quantitativamente più importante del grasso del latte, dall’altro è altrettanto innegabile che solo una sottofrazione di questi è correlabile con l’innalzamento del colesterolo LDL: la quota ascrivibile agli acidi grassi a media catena. Rimane poi una quota molto importante, costituita dalle molecole a corta e a lunga catena, che rappresenta quasi la metà degli acidi grassi saturi nel loro complesso, che non è in alcun modo correlata a variazioni ematiche di colesterolo. Se si considerano poi le altre classi di acidi grassi che compongono i lipidi del latte, per alcune di esse è stato dimostrato un ruolo fortemente positivo per la salute umana. È il caso degli acidi grassi ramificati e dell’acido oleico, uno degli acidi grassi più rappresentato nel latte, essendo contenuto per una percentuale che oscilla tra il 15 e il 25% a seconda della specie considerata e della dieta degli animali. Le proprietà positive dell’acido oleico, presente in grandi quantità nell’olio di oliva, sono a tutti note e raccordabili al controllo della colesterolemia. Un altro esempio positivo è rappresentato dagli “isomeri coniugati dell’acido linoleico” (CLA) di cui l’acido rumenico è la forma chimica maggiormente presente nel latte. Per l’acido rumenico sono stati dimostrati numerosi effetti positivi sulla prevenzione di malattie tumorali a carico della ghiandola mammaria e dell’intestino, ma anche un’azione immunomodulante e antiaterosclerotica.


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