Giocare per esprimersi
Tra il primo e il secondo anno di vita, tutto il modo di usare gli oggetti cambia: mentre nel corso dei primi mesi gli oggetti erano prevalentemente esplorati attraverso un gioco percettivo-motorio, mordendoli, sbattendoli, tirandoli e provando a disporli in vario modo, verso il secondo anno si affaccia la possibilità di una dimensione più simbolica. Le parole cominciano ad accompagnare le azioni, in una stimolazione reciproca; gli oggetti e il gioco con essi possono rappresentare anche situazioni differenti dalla presente, essere espressione dell’immaginazione del bimbo e anche delle dinamiche presenti nel suo inconscio e ancora non pensabili né esprimibili in modo consapevole. Nel nostro esempio iniziale, la macchinina di Paolo è ben più che un oggetto da sbattere: forse è parte di un’avventura fantastica, che stimola l’immaginazione, la curiosità e il desiderio di imparare le parole per comunicarla; forse è come la macchina del padre, che però, nella sua fantasia, è Paolo a guidare; forse, poi, rappresenta Paolo stesso, il suo desiderio di essere potente e andare veloce e, in questo caso, il pongo potrebbe rappresentare invece qualcosa di fastidioso in cui Paolo si sente intrappolato, la sensazione di essere sporco e incapace, un’emozione che non sa pensare né esprimere ma di cui desidera liberarsi, magari proprio proiettandola sul fratello, tirandogli il pongo. Si può vedere qui come gli aspetti percettivi, motori, cognitivi ed affettivi più profondi siano tutti stimolati e chiamati in causa anche nel gioco più semplice. Attraverso questo esempio si può comprendere come il gioco possa essere considerato una finestra sull’evoluzione delle dinamiche psicologiche del bambino. Proprio tale finestra può consentire di accorgersi se la traiettoria di sviluppo abbia delle complicazioni e, al bisogno, porvi rimedio, anche con una Psicoterapia.
La relazione con l’adulto
Come abbiamo visto dal primo esempio, fin da subito vi è una dimensione del gioco di grande rilevanza: l’essere in relazione. Attraverso i diversi momenti della crescita, il gioco è infatti un modo in cui il bambino si confronta non solo con sé stesso ma anche con gli altri. Se all’inizio della vita il contesto relazionale del bambino ha come riferimento principale la madre e la coppia genitoriale, crescendo, l’orizzonte sociale si estende, intrecciandosi con l’attività del gioco. Vi possono essere, qui, esperienze differenti. Da un lato, capita che il bambino si trovi a giocare con qualcuno più esperto di lui, un adulto o un altro bimbo. In questo caso, con l’esempio o l’incoraggiamento dell’altro, possono svelarsi al piccolo delle possibilità che gli sono già proprie ma che ancora da solo non potrebbe mettere in pratica. È come se ci fosse, per il bambino, una zona di sviluppo potenziale, costituita dalle acquisizioni della cultura in cui egli è immerso, che può divenire reale sviluppo soggettivo attraverso la relazione. L’adulto che gioca con il bambino, in questo caso, fa come il padre quando Paolo vuole arrampicarsi sull’albero: non sottrae al bambino la possibilità di fare un passo in avanti nel suo sviluppo, prendendolo in braccio e risolvendogli il compito, né gli propone un appiglio troppo alto da raggiungere, facendolo sentire frustrato e incapace; trova la giusta distanza, o meglio, quella che in quel momento funziona sufficientemente bene da consentire al figlio di imparare una cosa nuova che da solo non avrebbe scoperto. E proprio “trovare la distanza”, forse, è una parte fondamentale della difficile arte di fare il genitore.
Il rapporto con i coetanei
In altre situazioni, sempre più spesso con il passare degli anni, il gioco trova come ambito sociale privilegiato quello dei coetanei. È soprattutto con l’inizio dell’asilo e della scuola che il bambino si trova a giocare con i suoi pari. Qui le regole della socialità vengono apprese e sperimentate, prima in modo spontaneo, poi in modo sempre più strutturato, come avviene, ad esempio, attraverso quella particolare forma di gioco che è lo sport. Attraverso il gioco in relazione, inoltre, il bambino scopre man mano aspetti importanti del funzionamento della mente stessa. Scopre che se da una parte gli altri percepiscono similmente una realtà che condividono, dall’altra possono avere pensieri differenti sulla medesima realtà: può, quindi, chiedersi cosa gli altri stiano pensando e provando o, magari, cosa potrebbero pensare se “facesse finta che”. È proprio quello che succede a Paolo quando, seguendo le medesime regole degli altri in una partita di calcio, induce il suo avversario ad una falsa credenza, per fare gol. Per concludere, possiamo affermare che attraverso ogni età, l’imprescindibile valore del gioco è l’esplorazione e l’espressione dei propri desideri e l’esercizio delle proprie possibilità in un contesto protetto, ossia dove la realtà è un gioco. Nello stesso tempo, questa esplorazione delle proprie capacità è resa piacevole e, quindi, stimolata proprio dal carattere giocoso dell’esperienza. In questo senso, si può ben dire che il gioco sia il motore e anche la benzina dello sviluppo dell’individuo.