Vitamina D e COVID-19, nuove evidenze

Autore: Prof. Giancarlo Isaia

Numerosi studi continuano ad evidenziare uno stretto rapporto tra COVID-19 e carenza di Vitamina D, inserendo come variabile anche alcuni fattori ambientali come l’esposizione solare

La pandemia da Coronavirus si è manifestata con caratteristiche peculiari e la Ricerca scientifica, per lo più orientata verso la sintesi di anticorpi specifici in grado di contrastare gli effetti del virus e la produzione di un vaccino, non ha sino ad ora fornito sufficienti risultati sulle caratteristiche della malattia, sui meccanismi che ne favoriscono l’aggressione all’uomo, sugli obiettivi biologici verso i quali indirizzare un trattamento farmacologico e neppure sulle caratteristiche immunologiche del virus. Tutto ciò rende purtroppo molto problematiche le strategie difensive che ad oggi, di fatto, sono limitate alle indiscutibili misure di distanziamento fisico e di igiene individuale.

Vitamina D, quale funzione?

Nel marzo scorso, sulla base di dati scientifici teorici, avevamo ipotizzato che il decorso clinico del COVID-19 fosse influenzato, in senso negativo, da ridotti livelli di Vitamina D nel sangue.
La Vitamina D è nota da tempo per la sua capacità di stimolare la produzione di anticorpi in grado di difenderci dalle malattie, soprattutto da quelle infettive e virali (link 1) (link 2), ed era pertanto plausibile ipotizzare un suo coinvolgimento anche nei meccanismi che sviluppano le più nefaste conseguenze del COVID-19. Successivamente si è verificato un intenso dibattito a livello internazionale documentato da moltissimi dati scientifici (oltre 300 lavori editi nel 2020) che confermerebbero questa ipotesi, sebbene non siano ancora disponibili rigorosi e controllati studi prospettici.
In generale, la nostra ipotesi ha trovato conferma da studi ottenuti “sul campo” che hanno analizzato l’andamento clinico dei Pazienti e la loro risposta al trattamento con Vitamina D. Dagli studi è emerso che la presenza di ridotti livelli di Vitamina D era collegata ai casi da COVID 19 in forma severa e ad un più sfavorevole decorso clinico in presenza appunto di una ipovitaminosi più pronunciata.

Le evidenze degli studi

Fra i numerosi studi analizzeremo quindi quelli che prendono in considerazione l’utilizzo della Vitamina D per la prevenzione e per il trattamento dei pazienti COVID-19, e dai quali emergono alcune evidenze che è importante sottolineare:

  1. In uno studio osservazionale condotto su 154 Pazienti, la prevalenza di soggetti carenti di Vitamina D (con valori inferiori ai 20 ng/mL) è risultata del 31,9% negli asintomatici e del 96,9% in quelli che si sono aggravati al punto tale da richiedere un ricovero in terapia intensiva (link 3)
  2. In uno studio randomizzato su 76 Pazienti con scarsa sintomatologia, la percentuale di soggetti per i quali successivamente è stato necessario il ricovero in terapia intensiva è stata del 2%, se trattati con dosi elevate di Vitamina D (calcifediolo) e del 50% nei Pazienti non trattati (link 4)
  3. In 77 soggetti anziani ospedalizzati per COVID-19, la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo se assunto nell’anno precedente o al momento della diagnosi (link 5)
  4. In una sperimentazione clinica su 40 Pazienti asintomatici (o con sintomi lievi) è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei Pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo (60.000 UI/die per 7 giorni) (link 6)

Da questi e da altri studi si può desumere che la Vitamina D sia più efficace contro il COVID-19, se somministrata con obiettivi di prevenzione (link 7) soprattutto nei soggetti anziani, fragili e ospiti in strutture di assistenza, e in dosi elevate.


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