Clima, l’importanza degli accordi

Autore: intervista al Prof. Giampiero Maracchi di Antonella Ciana

Come la mancanza di pioggia, che non è più ormai sinonimo di “bel tempo”...

Appunto. E pensiamo alla frequenza e all’intensità degli uragani che coinvolgono diverse zone del mondo, oltre agli eventi estremi che abbiamo anche in Italia, come le piogge sopra i 300 mm, che in passato erano molto rare (succedevano ogni 30 anni!) e che ora invece investono molte località italiane anche tutti gli anni. Sono piogge inutili, oltretutto, perché se ne vanno completamente tutte insieme: dato che i terreni italiani sono in genere in gran parte a composizione argillosa e hanno una capacità d’infiltrazione di pochi mm l’ora, e dato che questo tipo di piogge ha una capacità di infiltrazione di pochi mm l’ora, ne consegue che se, per esempio, piovono 20 mm in un’ora, 18 se ne vanno e non vengono assorbiti dal terreno, andando altresì a finire direttamente nei fiumi e nel mare, e quindi si tratta di acqua non disponibile nelle falde. È la ragione della siccità che abbiamo avuto nell’estate scorsa e che, purtroppo, mi sembra di veder riaffacciarsi anche per il 2018, poiché continua a non piovere. E siccome le falde dei fiumi si riforniscono d’autunno (tanto è vero che proprio in base a questi presupposti a febbraio scorso “pronosticai” un’estate disastrosa, e così è stato), si capisce come l’essere contenti del “bel tempo” sia un controsenso, perché invece ci vuole l’acqua! L’insieme di due fenomeni ormai ricorrenti, la siccità invernale e le ondate di calore estive, crea un problema di disponibilità idrica specialmente nel Nord Italia, dove il modello di agricoltura si basa su colture irrigue, fortemente penalizzate dalla mancanza di acqua. Si pensi che addirittura colture tradizionalmente tipiche dell’area mediterranea (che da sempre è un’area, specialmente nelle regioni meridionali, siccitosa) come la vite e l’olivo, quest’anno hanno una riduzione di produzione dal 30 al 50%. E tutto ciò anche se queste piante - l’olivo in particolare - hanno dei meccanismi che bloccano la traspirazione, quindi consumano poca acqua; la vite peraltro ha radici molto profonde e va a prendere l’acqua in profondità. Ciò nonostante, viti e olivi hanno sofferto tantissimo, con riduzioni importanti di produzione e, quindi, con una ricaduta anche dal punto di vista economico.

Tornando al Protocollo di Montreal, è stato efficace contro il buco dell’ozono?

Nel 1987, preso atto delle rilevazioni scientifiche, si sono date indicazioni obbligatorie alle industrie, come ad esempio la sostituzione dei CFC con altri gas privi di questo tipo di effetti sull’ozono. Questo ha avuto successo, visto che in effetti ha portato a ricreare lo strato dell’ozono, pur in presenza di altre molecole (come il diclorometano) che si combinano con esso e l’aumento di una serie di processi industriali che potrebbero ritardare la “riparazione del buco”. Oggi la situazione è abbastanza tranquilla e l’ultravioletto che arriva è dovuto in gran parte a cause naturali (pre-rivoluzione industriale). Entro 30 anni il danno sarà riparato, salvo naturalmente rivedere i gas dannosi. Tengo a dire, però, che gli ultravioletti che ci arrivano, pur se in quantità normali, sono comunque pericolosi: spesso si pensa all’ozono come a una sorta di “protezione solare” che ci consente di trascorrere intere giornate al sole senza altre protezioni e a qualsiasi ora. Non è così, tanto è vero che sono sempre più diffuse tabelle specifiche che evidenziano (a seconda delle condizioni meteorologiche) la condizione degli ultravioletti secondo una precisa scala di valori. E sopra determinati valori bisogna sempre usare delle creme protettive, evitando al tempo stesso l’esposizione in determinati orari.

Perché invece contro l’effetto serra non ci sono ancora accordi efficaci?

Non c’è da meravigliarsi: sono 25 anni che diciamo che il clima è cambiato completamente. Ce ne saremmo dovuti preoccupare negli anni ‘90, ma nonostante le conferenze e gli appuntamenti tra i Big della Terra si continua a sbagliare. Diciamo che sta venendo sempre più allo scoperto, anche dopo le ultime conferenze di Copenhagen e Durban, la necessità di cambiare complessivamente il modello economico, che vuol dire meno combustibili, meno trasporti, sì ai prodotti locali e non a quelli che fanno migliaia e migliaia di km. Se però i Grandi della Terra traccheggiano, molto potrebbe fare ciascuno di noi: consumare frutta e verdura di stagione, usare poco l’auto e non pretendere di stare in maglietta in casa a Natale... anche questo significa voler bene all’ambiente.


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