Professore, come è nata l’idea di questo importantissimo progetto?
Il protocollo è partito su iniziativa del servizio di Immunoematologia del Policlinico San Matteo, fortemente appoggiato dalla Direzione generale, che ha colto in un momento di grande difficoltà terapeutica l’occasione di aggiungere un’arma in più alla terapia già in atto, quindi quella con antivirali e altri presìdi come il Tocilizumab, gli anticorpi monoclonali. L’idea è nata basandoci sulle esperienze precedenti di altre pandemie (Sars, Mers, Ebola…) per tentare una terapia aggiuntiva utilizzando un’idea abbastanza semplice, cioè utilizzare il plasma dei soggetti guariti dall’infezione da Covid-19. Nel plasma dei soggetti guariti convalescenti ci sono infatti gli anticorpi circolanti che hanno permesso loro di guarire, e questi sono in grado, una volta infusi in un soggetto il cui sistema immune non è stato in grado di creare una difesa immunitaria efficace, di infondere passivamente degli anticorpi molto specifici diretti contro il virus. Il Policlinico, disponendo di una Virologia di altissimo livello, è anche in grado di qualificare questo plasma che “fa il titolo” di questi anticorpi (si dice “titolo neutralizzante”); significa mettere a contatto il plasma dei convalescenti con una coltura di coronavirus e poi vedere come questi siano in grado di uccidere il virus.
Quale iter burocratico avete dovuto seguire?
L’iter che si fa in questi casi, e cioè: scrittura del protocollo, quindi sottomissione al Comitato etico dell’IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, poi richiesta al Centro Nazionale Sangue (che è il nostro referente nazionale) del permesso di raccogliere “in deroga”, ovvero di raccogliere il plasma con aperture più ampie rispetto a ciò che si fa per un donatore di sangue tradizionale. Il Centro Nazionale Sangue, nelle vesti del suo Direttore, ha immediatamente concesso la raccolta in deroga, addirittura aumentando il numero degli esami sul plasma, che vanno ben oltre quelli previsti dalla legislazione italiana per un plasma classico di routine. Quindi il plasma che noi rilasciamo è forse il più sicuro al mondo proprio per via di questi esami aggiuntivi (Epatite A, Epatite E e Parvovirus) e in più ha anche il titolo, quindi è ipersicuro. Questo è ciò che ci contraddistingue dagli altri protocolli che sono partiti ad esempio negli Stati Uniti, a cui abbiamo messo a disposizione il nostro protocollo, perché ci è stato chiesto dall’ASH (American Society of Ematology) nelle vesti del suo Presidente. Loro hanno riconosciuto il fatto che noi siamo avanti di 40-45 giorni nell’esperienza Covid-19 rispetto a loro, dove l’ondata è arrivata dopo. Penso che in queste condizioni di alta drammaticità bisogna condividere tutto, e quindi lo abbiamo ceduto immediatamente. Gli americani l’hanno adattato, l’FDA l’ha recepito adattandolo alle esigenze organizzative degli Stati Uniti e hanno ottenuto il consenso e l’adesione di ben 106 Centri universitari; poi hanno allertato la Croce Rossa americana e, quindi, è partito anche negli Stati Uniti, cosa che ci rende orgogliosi.
Ci spiega in dettaglio come funziona questa importante scoperta?
Sottolineo che non esistono pozioni magiche, ma soltanto buone pratiche mediche. La nostra è una terapia aggiuntiva importantissima, perché è l’unica in questo momento realmente diretta contro il virus, quindi realmente virucida. Poi nella pratica della terapia bisogna individuare il “timing” ideale per l’infusione. Un esempio: un paziente da 30 giorni in ventilazione forzata probabilmente non è il target ideale perché ha un polmone già compromesso. Quindi il timing ideale (che è l’obiettivo dello studio) è quello di individuare i pazienti nella fase “mild severe” cioè di gravità medio severo, ovvero quelli che da un’infezione con febbre e tosse stanno andando verso la desaturazione. In pratica, hanno l’ossigenoterapia e stanno scivolando verso i caschi Cpap (sistemi di ventilazione assistita non invasiva). Questo è il timing ideale per intervenire. Va sottolineato che questa terapia nulla toglie alle altre terapie che le varie istituzioni di “intensive care” decidono di attuare secondo i loro protocolli; quindi non interferisce con la terapia antivirale farmacologica. È una terapia che si può dare in associazione, non in alternativa.