È ormai diffusa tra le persone l’idea che il “colesterolo” sia un nemico da combattere e, in effetti, sappiamo che esiste un rapporto diretto tra l’aumento dei suoi valori nel sangue e l’insorgenza di un danno cerebro-cardio-vascolare. Da circa 15-20 anni sono in corso diversi studi clinici su questo argomento che nel loro insieme hanno evidenziato e confermato il significato patologico della colesterolemia totale elevata, ma anche di altre alterazioni dei lipidi (ovvero dei grassi) o delle lipoproteine.
Cosa sono le lipoproteine
Le lipoproteine sono composti prevalentemente proteici che trasportano nel torrente sanguigno i vari lipidi, più esattamente dal fegato e dall’intestino verso i tessuti periferici e da questi al fegato.
Le lipoproteine si distinguono sulla base di una più bassa o più alta densità e quindi di una maggiore o minore possibilità di favorire problemi cerebro-cardio-vascolari. Infatti, minore è la densità e maggiore è la probabilità del danno, in quanto hanno una più elevata opportunità di penetrare nelle strutture delle arterie e determinare Aterosclerosi con le relative conseguenze. Le lipoproteine, semplificando, si possono distinguere dalle più grandi e meno dense (più lipidi che proteine) a quelle più piccole e più dense (più proteine e meno lipidi):
- lipoproteine di grandi dimensioni o chilomicroni: sono costituite essenzialmente dai trigliceridi presenti nel sangue nel periodo post-prandiale; questi vengono veicolati dall’intestino tenue, dove si formano, ai tessuti (muscolari e adiposi) per poi depositarsi nel fegato;
- lipoproteine a densità molto bassa o VLDL (“Very Low Density Lipoprotein”): veicolano i trigliceridi sintetizzati dal fegato verso i tessuti adiposo e muscolare (forniscono energia alle cellule); man mano che vengono ceduti rimane sempre più un residuo di colesterolo che rappresenta 1/5 del totale lipidico;
- lipoproteine a densità intermedia o IDL (“Intermediate Density Lipoprotein”): sono intermedie tra le VLDL e le LDL e raramente si riscontrano nel sangue; queste lipoproteine sono a bassissima densità, trasportano colesterolo e si trasformeranno in LDL-C; si quantificano indirettamente con la formula delle “lipoproteine non ad alta densità”, ovvero del “colesterolo non HDL”; le IDL esprimono con le VLDL un gruppo di lipoproteine ricche di piccolissime particelle di colesterolo, e sono quelle che possono creare maggiori problemi, vengono definite come “colesterolo cattivo”;
- lipoproteine a bassa densità o LDL (“Low Density Lipoprotein”): la colesterolemia LDL (LDL-C) è una sottoclasse del colesterolo totale necessaria anch’essa per il funzionamento delle membrane cellulari e del sistema endocrino, ma se in eccesso si deposita nella parete delle arterie e viene considerato un fattore di rischio per la malattia aterosclerotica;
- lipoproteine ad alta densità o HDL (“High Density Lipoprotein”): sono note come le lipoproteine del “colesterolo buono”; è quella frazione del colesterolo totale che, se elevata, aiuta a “pulire” la parete delle arterie dal colesterolo che si deposita in eccesso o meglio facilita la fuoriuscita di colesterolo dalla placca ateromasica (trasporto a ritroso del colesterolo) riportandolo al fegato.
Altri fattori di rischio
Il Paziente che presenta un’alterazione della concentrazione dei grassi presenti nel sangue (40-60% dei casi) è spesso portatore di Ipertensione (pressione alta), anche a causa della rigidità della parete delle arterie conseguente all’Aterosclerosi. A tali soggetti, quindi, è importante controllare la pressione arteriosa con una regolare misurazione dal Medico (obiettivo: 130/80) e/o con l’auto-misurazione domiciliare (obiettivo: 120/80). Un rapporto esiste verosimilmente anche nel soggetto dislipidemico con il Diabete del secondo tipo o con la Sindrome Metabolica. Questi ultimi si caratterizzano per avere un quadro lipidico tipicamente alterato ovvero con un’alta probabilità di presentare importanti danni cerebro- cardio-vascolari.
Terapia e stile di vita
Una valutazione combinata e sintetica degli studi clinici di intervento farmacologico indica che la costante riduzione della colesterolemia induce un importante decremento dell’incidenza di eventi clinici su base aterosclerotica. La terapia farmacologica deve essere preceduta e accompagnata da un idoneo stile di vita. In pratica, un’adeguata attività fisica di tipo dinamico, associata ad una dieta, sia quantitativamente ipocalorica, sia qualitativamente priva di grassi saturi di derivazione animale (latte intero, formaggi, carni rosse, burro, uova, ecc.), ricca di grassi monoinsaturi di derivazione vegetale (olio di oliva, ecc.), di fibre alimentari (pectine, cellulose, ecc.) e di antiossidanti (legumi, frutta, ecc.). Qualora i valori lipidici risultassero ancora alterati, diventerebbe in questi casi imperativo aggiungere una o più sostanze farmacologiche. I farmaci, da soli o variamente associati tra loro, che possono migliorare il quadro lipidico sono:
- statine: agiscono prevalentemente sulla colesterolemia; sono presenti in commercio da circa 20 anni ed ottimamente tollerate, se si evitano di trattare alcune forme morbose o di coniugarle con alcune sostanze che ne controindicano l’assunzione;
- fibrati: operano prevalentemente sulla trigliceridemia elevata, aumentando nel contempo il colesterolo HDL; tra i fibrati si preferisce utilizzare il fenofibrato, perché compromette di meno la via metabolica delle statine se dovessero essere associati;
- ezetimibe: riduce la colesterolemia diminuendone l’assorbimento intestinale; l’associazione farmacologica con le statine da risultati eccellenti;
- acido nicotinico: incrementa la colesterolemia HDL e possiede un’azione favorevole anche sulla colesterolemia LDL e sulla colesterolemia totale.
Il trattamento, ovviamente, deve far riferimento a parametri cosiddetti “normali” o di “riferimento”. La probabilità di ricevere un evento aterosclerotico è continua e progressiva ed in particolare ha una maggiore percentuale quando coesiste un danno oppure ha una sua potenzialità lesiva se sono presenti i di fattori di rischio cerebro-cardio-vascolari. In questi non rari casi è necessario aumentare il carico farmacologico per ridurre ulteriormente i valori “lipidici” ed altre eventuali condizioni di rischio.

Alcune situazioni tipo
Le alterazione più frequenti del colesterolo plasmatico e più in generale dell’assetto lipidico possono essere così riassunte:
- soggetti con colesterolemia totale e LDL-C elevati, trigliceridemia normale e HDL-C normale o ridotto: in questi casi è necessario iniziare il trattamento con una statina a basse dosi per aumentarla gradualmente per poi eventualmente associare l’ezetimibe (valori accettabili per la colesterolemia totale: 180-200 mg/dl);
- soggetti con colesterolemia totale e trigliceridemia elevate, HDL-C normale o ridotto: questi soggetti devono essere trattati con una statina da sola o associata con l’ezetimibe come per le ipercolesterolemie semplici fino a raggiungere valori di LDL-C accettabili (60-130 mg/dl); per la trigliceridemia si veda dopo;
- soggetti con colesterolemia totale e LDL-C normali, trigliceridemia elevata e HDL-C ridotto: in questi casi la classe farmacologica di scelta è quella dei fibrati (fenofibrato) che agiscono sulla trigliceridemia elevata (valori accettabili: 70-150 mg/dl) e successivamente se l’HDL-C dovesse essere ridotto (valori accettabili: superiore a 50 mg/dl), nonostante un adeguato stile di vita e l’assunzione del fenofibrato, si può associare l’acido nicotinico; se ci fosse eccesso di peso e/o iperglicemia si possono aggiungere dei farmaci ipoglicemizzanti e si tenta di far ridurre il peso.
Se il colesterolo rimane alto
Nonostante oggi il trattamento sia efficace, il 45-50% dei Pazienti, pur facendo una terapia adeguata e ben impostata, non riesce a raggiungere l’obiettivo terapeutico. Siamo allora difronte ad un rischio cardiovascolare da “resistenza al trattamento”, documentato anche da alcuni studi clinici. Si discute se è espressione di una non perfetta copertura terapeutica sui lipidi e più in generale sui fattori di rischio cardiovascolare o di un fattore genetico che rende resistente al trattamento, o più semplicemente di un tardivo inizio della terapia farmacologica.
Altre interpretazioni ritengono importante il rischio cardiovascolare globale. L’azione preventiva e protettiva indotta da un cronico utilizzo delle statine (riduzione del rischio relativo di eventi) non si osserva oppure è meno evidente quando si valuta l’effetto del loro impiego sul rischio cardiovascolare globale (rischio assoluto di eventi). A questo proposito le Linee Guida consigliano di personalizzare il trattamento, sia verso l’assetto lipidico alterato sia verso la correzione di altri fattori di rischio cardiovascolare. La presenza/persistenza di uno o più fattori di rischio cardiovascolare, infatti, produce una resistenza all’efficacia farmacologica e un effetto sinergico verso la probabilità di realizzare un danno, in termini di morbilità e mortalità, verso organi ed apparati dell’organismo.