Sono passati ormai oltre venti anni dall‘individuazione di molecole veramente efficaci nella terapia per la riduzione della colesterolemia, le famose “statine”. Un importantissimo passo avanti nella cura delle malattie cardiovascolari e una opportunità per realizzare strategie di prevenzione. Fin dalla loro prima introduzione nella pratica clinica, si è dibattuto il problema: a chi dare le statine? A tutti o solo a chi ha una grossa probabilità di incorrere in un Infarto? Come quantificare il rischio cardiovascolare di ogni potenziale utilizzatore?
A queste domande hanno cercato di rispondere, in tutto il mondo, gli Organismi regolatori e le Società scientifiche. Ne sono nate, in Italia e altrove, regole e limiti, note e Linee Guida, tabelle e “calcolatori di rischio”. Tutto ciò, nell’intento di dare strumenti oggettivi di valutazione, per le decisioni e le scelte che i Medici devono compiere per ogni Paziente.
Le Linee Guida
In linea generale, il ragionamento alla base di questi strumenti regolatori, può essere riassunto così: partendo da dati come età, sesso, valore del colesterolo, abitudine al fumo, pressione, presenza o meno di Diabete, familiarità, ecc. e seguendo nel tempo decine di migliaia di persone, si ottengono tabelle che descrivono il Rischio Cardiovascolare Globale di ogni Paziente. Esistono tabelle europee, americane, italiane, tutte più o meno si propongono di quantificare la probabilità che un certo individuo, nei prossimi dieci anni, vada incontro ad Infarto, Ictus, o debba subire un bypass o un‘angioplastica.
In base a tali previsioni potremmo ipotizzare che una quarantacinquenne, che non fuma, non ha il Diabete nè l’Ipertensione e ha un colesterolo di 220, ha un rischio, entro dieci anni, molto basso. Diciamo per semplicità un 2%. Per contro un sessantacinquenne, diabetico, obeso, iperteso e fumatore, con il colesterolo a 280, rischia un grave evento cardiovascolare, diciamo, nel 40%.
Pro e contro
Bisogna però anche considerare il rovescio della medaglia: nessun farmaco è esente da effetti collaterali, e interazioni potenzialmente pericolose. Nel caso delle statine, in particolare, sono piuttosto frequenti i disturbi e i danni a carico di muscoli e fegato. Si tratta di farmaci che, per definizione, vanno assunti per decenni. Anche il costo deve essere considerato, se vogliamo completare la valutazione dei rischi/costi e dei vantaggi/benefici. Tornando ai grossolani esempi fatti prima, immaginiamo per semplicità che sia stato dimostrato che le statine siano in grado di dimezzare il rischio.
Pazienti come la signora, si è detto, hanno il 2% di rischio in dieci anni. Se diamo la statina, il rischio scende all’1%. Detto in altri termini, su cento Pazienti, 98 avranno assunto per dieci anni un farmaco tutto sommato inutile, con tutti gli effetti collaterali sgradevoli e i rischi connessi (sono quelli a cui non sarebbe successo nulla neanche se non trattati). Un altro Paziente avrà avuto lo stesso la malattia cardiaca che si sperava di evitare. Un solo Paziente su cento, in dieci anni, avrà tratto vantaggio dal prendere per dieci anni la statina.
Nel caso di Pazienti a rischio molto alto, come nell’esempio dell’anziano diabetico fumatore, avevamo una percentuale di eventi del 40%. Significa che, dimezzando questo rischio con la statina, solo 20 persone su cento, invece di 40, avranno un Infarto, ma altri 20 lo eviteranno. In scenari estremi come questi, è abbastanza semplice prendere una decisione; nel senso che una strategia volta a trattare 100 Pazienti per proteggerne uno solo, è considerata sbagliata; mentre trattare Pazienti con un rischio cardiovascolare del 20-30% in dieci anni, è da tutti ritenuto un approccio doveroso.
Fissare il livello
Ma dove porre il confine? E ancora: fino a quali valori è conveniente e opportuno abbassare il colesterolo? In una prima fase, le strategie parevano indirizzate a limitare il trattamento solo alle fasce di Pazienti a rischio più alto.
Negli anni successivi, anche grazie al calo dei costi, e avendo constatato la relativa rarità degli effetti collaterali, si è passati a scelte più “allargate”. Inoltre si è cominciato a parlare di target, ovvero di “livelli di colesterolo” a cui si dovrebbe arrivare. In particolare si fa riferimento al colesterolo LDL, quello conosciuto come colesterolo “cattivo”. Si è stabilito che, per Pazienti a basso rischio, è necessario portare il valore sotto 130; per i Pazienti più gravi, occorre scendere sotto 100, o addirittura sotto 70. Nulla in Medicina è però stabilito una volta per sempre: proprio in questi giorni due tra le Associazioni scientifiche più prestigiose in questo campo, la “American Heart Association” e la “American College of Cardiology” hanno pubblicato un nuovo documento. Si tratta di Linee Guida valide per ora solo negli USA, che al momento non sono state ancora recepite dagli organismi europei e italiani.
In tale documento scientifico, pur partendo da considerazioni e da dati clinici e farmacologici non diversi da quanto noto ormai da tempo, si approda a soluzioni diverse. Una prima diversità sta nel semplificare la stratificazione del rischio. Semplificando un poco, possiamo dire che gli Specialisti americani consigliano di abbandonare i vecchi schemi che classificavano i Pazienti in tre, quattro o più categorie, e propongono un valore-soglia di rischio a 10 anni, pari al 7,5%. Chi ha un rischio più alto deve essere trattato, chi rimane sotto invece no.
Personalizzare i valori
Ma la novità maggiore delle Linee Guida americane sta nell’abbandono del concetto di “valore target”, spostando l’attenzione sulla diminuzione percentuale del valore del colesterolo. Se si decide di utilizzare una statina, viene raccomandato di cercare un abbassamento di almeno il 30%, a prescindere dal valore di partenza. Solo nei casi di prevenzione secondaria, cioè quando in realtà una patologia cardiovascolare è già presente, e si tratta di evitare, ad esempio, un secondo Infarto, gli Specialisti americani consigliano di abbassare il colesterolo LDL del 50% o più. La cosa è ragionevole: quando si tratta di prevenire un evento, ma ancora in assenza di malattia, un calo del 30-40% garantisce un calo del rischio significativo, senza dover usare farmaci troppo potenti o in dosi troppo massicce. Le cose cambiano invece quando si deve trattare chi è già stato colpito: in questi casi è giustificato l’uso delle “maniere forti”. In questa ottica è giustificato anche l’abbandono del “target” fisso e uguale per tutti. Se un Paziente ha già avuto un Infarto, siamo sicuri che il valore del colesterolo che aveva era per lui pericoloso. Con i criteri precedenti, se una persona aveva un Infarto con un colesterolo LDL basso (ad esempio 100), si poteva ritenere che per lui non fosse necessario nessun trattamento o al massimo un piccolo abbassamento. Nel nuovo scenario, si prende consapevolezza che, per “quel” Paziente, un valore di 100 si è dimostrato dannosissimo; per questo dovrà essere curato in modo da farlo scendere sotto il valore di 50.
Questo valore sarà il “suo” target, e sarà diverso da quello di un altro Paziente, che avrà avuto un Infarto, ma che aveva un colesterolo LDL molto più alto. Per questo è forse impossibile raggiungere il target storico di 70, se non a costo di effetti collaterali gravi. Ma trarrà certamente vantaggio da un dimezzamento, anche se non scenderà nemmeno sotto i 100.