Ulcera, dal sintomo alla comprensione

Autore: Dott.ssa Laura Ballanti

Dal sintomo alla comprensione

L’ulcera racconta un tentativo regressivo estremo di ritorno al cibo dell’infanzia per sentirlo buono, riattivando inconsci desideri di nostalgia dell’allattamento, quando il nutrimento è stato interiorizzato come frustrante, non capace di sostenere la crescita, la separazione, la propria autonomia. Il sintomo serve a riparare una ferita rimasta aperta.
Secondo Garma, il neonato non distingue sé dall’altro e, introducendo il latte, assimila l’immagine del seno materno, oggetto parziale dell’intera figura della madre, cui attribuisce la responsabilità delle proprie sensazioni corporee anche spiacevoli, così è la mamma che toglie il cibo (fame), che dà cibi cattivi (disturbi intestinali), che “morde da dentro” (dolori gastrici). Una “cattiva madre interiorizzata” che sembra parlare dall’interno, una specie di rigida coscienza carica di divieti, rimorsi e sensi di colpa, è il peso indigesto di un nutrimento intollerante che logora. Non potendo essere accettata, è repressa e proiettata all’esterno (“il mondo ce l’ha con me”).
Nelle fasi evolutive il nutrimento può continuare a condizionare l’esperienza del piacere, impedendo uno sviluppo psicosomatico sano.
La persona con ulcera vede la vita come un pasto, non mastica, ingurgita voracemente.

Bisogni inconsci

I lavori clinici sui fattori emotivi dell’ulcera descrivono caratteristiche generali di identità e un particolare tipo di conflitto.
Per la Dunbar la persona con ulcera aspira a essere autosufficiente. In realtà, dietro ad un’ostentata indipendenza si nasconde un bisogno insoddisfatto di calore e appoggio. Alexander parla di “fame d’affetto” che, indipendentemente dallo stimolo fisiologico normale (il bisogno di cibo), condiziona continuamente lo stomaco come se avesse appena ingerito cibo o si preparasse a ingerirlo.
L’attacco ulceroso insorge quando la tensione interna non è più contenibile: durante i pasti, nelle discussioni accese, in stati d’ira o di bisogno, l’ulceroso accusa una “fitta” come un fuoco improvviso. La vulnerabilità diventa paura degli spazi smisurati, troppo chiusi o troppo aperti (claustroagorafobia): l’ulcera può funzionare come sintomo di copertura di angosce profonde.
I sogni sono incubi, interrotti per l’oppressione delle emozioni incontenibili, indigeste: prigioni, ascensori, tunnel e cunicoli sono ricorrenti, simili alle parti del corpo collegate alla digestione e con riferimento ai passaggi, come alla nascita e all’ingresso nel mondo. 

Dal dolore alla riparazione

La ricerca psicoanalitica più recente sui meccanismi inconsci sottostanti l’ulcera evidenzia il legame tra contenitore e contenuto. Una buona relazione di nutrimento è un’esperienza essenziale per acquisire fiducia e costruire in modo stabile una “pelle-membrana” che assicura la tenuta psichica.
Alcune ferite sono vissute come strappi, vere e proprie lacerazioni interne che nel tempo non trovano riparazione, non si cicatrizzano più, come se avessero perduto definitivamente la potenzialità elastica di rimarginare la tessitura dei sentimenti e delle emozioni.
La riparazione psichica è per l’equilibrio interno l’equivalente della cicatrizzazione dei tessuti per la materia organica. In Psicoterapia è un po’ come riunire i lembi di una ferita. Nella cura vanno riconosciuti e accettati consapevolmente i risvolti psicologici del nutrimento, così costanti e ineliminabili perché fondanti da sempre l’origine e la continuità della vita. 


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