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Cibi “senza”, tra falso mito e utilità

Autore: Prof. Paolo Ranalli

Si va sempre più affermando il consumo di cibi che vantano l’assenza di alcuni elementi spesso senza un reale vantaggio o necessità 

In una recente ricerca, a livello europeo, condotta su oltre 30 mila individui, è risultato che gli italiani si sono dimostrati più attenti alla qualità del cibo: il 21% degli intervistati (rispetto al 15% della media europea) vorrebbe nei supermercati più alimenti alternativi alla carne; il 63% del campione afferma di essere attento all’alimentazione per prevenire alcune malattie croniche (Obesità, Diabete, Colesterolo alto, Ipertensione), mentre il 53% si dichiara disponibile a pagare un prezzo più alto per i cibi che non contengono ingredienti indesiderati. Tale quadro, positivo per il nostro paese, sembra spiegarsi con l’attenzione che poniamo al benessere, alla forma fisica ed alla salute, nonché al pericolo derivante dalla crescente diffusione delle intolleranze alimentari. Allora tutto bene? Sembrerebbe di si... senonché, l’invasione televisiva alimentare promuove, a volte, informazioni errate e trasmette messaggi che radicano nell’opinione pubblica credenze che spesso non hanno riscontri scientifici.

Il falso mito dei cibi 100% italiani

L’Italia nel settore alimentare non è autosufficiente e deve importare grandi quantità di materie prime dall’estero. Una situazione ben conosciuta dagli addetti ai lavori, ma meno nota al grande pubblico, che vorrebbe sempre comprare cibo “made in Italy”, ovvero preparato con materie prime al 100% italiane. La non autosufficienza si traduce nella necessità di importare ingredienti da trasformare in prodotti finiti destinati sia al consumo interno sia all’esportazione.
L’esempio della pasta è istruttivo: il grano duro italiano copre solo il 65% del fabbisogno, occorre importare frumento da Paesi come Canada, Stati Uniti, Sudamerica. Anche per il grano tenero vale la stessa cosa, poiché il prodotto interno copre solo il 38% di ciò che richiede il settore, con importazioni da Canada, Francia, ma anche da Australia, Messico e Turchia.
Non cambia la situazione per altre categorie merceologiche: le carni bovine italiane rappresentano il 76% dei consumi e per il latte si scende addirittura al 44%; anche per lo zucchero e il pesce fresco dobbiamo rivolgerci ad altri mercati poiché riusciamo a coprire solo il 24% e il 40% del consumo interno. Lo zucchero viene soprattutto dal Brasile, mentre il pesce da Paesi Bassi, Thailandia, Spagna, Grecia e Francia, oltre a Danimarca ed Ecuador. Anche la maggior parte dei legumi non sono italiani, a causa di drastiche riduzioni delle coltivazioni a partire dagli anni ’50. Adesso, le importazioni provengono principalmente da Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, ma anche da Medio Oriente e Cina.
Siamo autosufficienti, invece, per quanto riguarda riso, vino, frutta fresca, uova e pollame. Solo in questi casi abbiamo la quasi totale certezza di comprare un prodotto “made in Italy” al 100%.
Ci sono situazioni che ci sorprendono: alcuni prodotti correlati al territorio, come quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), sono in realtà il risultato eccellente della lavorazione di materie prime non italiane. La bresaola proveniente dalla Valtellina viene preparata con carne argentina o del sud America. La Valtellina offre un ambiente ottimo per la stagionatura e la lavorazione del prodotto, ma non dispone di allevamenti in grado di fornire l’ingrediente di base.
La provenienza di materie prime dall’estero non è necessariamente sinonimo di scarsa qualità: la sicurezza dipende dai controlli e dal rispetto delle regole. È più importante poter potenziare gli strumenti che garantiscono la qualità di un prodotto o di un ingrediente, a prescindere dalla sua provenienza geografica, piuttosto che ricercare l’italianità a tutti i costi, anche quando non è possibile.

Gluten-free per moda

Il 10% dei cittadini europei segue una dieta totalmente, parzialmente o occasionalmente “gluten-free” senza averne bisogno. Sei milioni di italiani consumano cibo per intolleranti, senza esserlo. Si assiste, cioè, ad un boom di celiaci per moda.
Infatti, il mercato dei prodotti “gluten free” in Italia vale 320 milioni di euro ma solo 215 vengono spesi dai Pazienti con l’intolleranza diagnosticata.
A cosa è dovuta questa passione per la dieta senza glutine? Per un italiano su dieci la dieta aglutinata è più salutare, ma nessuna ricerca scientifica dimostra i vantaggi per la salute erroneamente attribuiti a questa dieta per chi non è celiaco. Studi recenti dimostrano che la dieta di esclusione in chi non è celiaco non riduce neppure il rischio cardiovascolare; anzi, sono poveri di fibra e spesso addizionati di grassi o zuccheri in eccesso. Oltre al maggiore costo, c’è anche un motivo etico: i diritti faticosamente conquistati dai celiaci rischiano di essere messi in discussione dal diffondersi della moda del “senza glutine” tra i non celiaci, che svilisce e banalizza la malattia.


Senza zuccheri e senza grassi

Molte persone sono convinte che l’assenza di zuccheri e grassi aiuti a non ingrassare, in realtà è falso: spesso nei prodotti light gli ingredienti utilizzati per sostituire grassi e zuccheri (additivi, emulsionanti, stabilizzanti) possono risultare poco sani e non sempre meno calorici. Per esempio, nei grissini la differenza di calorie tra un etto di grissini “normali” e un etto di quelli “alleggeriti” si attesta intorno alle 30 calorie. Stesso discorso vale per i biscotti e i dolci senza zucchero che, in molti casi, hanno le stesse calorie di quelli normali perché gli ingredienti mancanti devono essere rimpiazzati da altri, altrettanto calorici. Quindi è preferibile consumare i cibi tradizionali riducendo le quantità. Invece, le suddette diciture possono invogliare i consumatori a mangiarne di più.

Senza olio di palma

Recentemente è stato paventato il pericolo per l’olio di palma e molte industrie alimentari fanno a gara a scrivere sulle confezioni, con bella evidenza, la dicitura “senza olio di palma”. Ciò è stato generato dal fatto che, fino a poco tempo fa, l’olio di palma se ne stava nascosto in etichetta, coperto dalla vaga dicitura “oli vegetali”; ora non più: sulla famosa crema di nocciole che tutti conosciamo, ad esempio, sta scritto chiaro e tondo. I consumatori hanno scoperto, per esempio, che nei biscotti che consumavano ogni mattina c’era una buona parte di olio di palma, olio di colza oppure olio di semi di girasole. Ci si è resi conto, insomma, della grande diffusione dell’olio di palma in molti prodotti alimentari, probabilmente dovuta anche alla demonizzazione di altri grassi che sono saliti, via via, sul banco degli imputati: il burro, i grassi trans e infine l’olio di soia, inviso perché Ogm.
Ciò ha innescato, in buona parte inconsciamente, dubbi su possibili effetti negativi dell’olio di palma sulla salute dell’uomo. Tali dubbi sono stati alimentati, un po’ ad arte, anche da ragioni eco-ambientali, ovvero dalle possibili conseguenze negative che la coltivazione di palma da olio produce sull’ambiente naturale. Sulla salute, è bene sottolinearlo, non ci sono evidenze scientifiche dirette circa la eventualità che l’olio di palma possa essere dannoso per l’uomo, non più di un qualsiasi altro grasso vegetale con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/polinsaturi, quali ad esempio il burro. Gli studi nei quali l’olio di palma è stato sostituito, nell’alimentazione umana, da altri grassi animali o vegetali hanno evidenziato che il consumo di olio di palma non determina un aumento di rischio di malattie cardiovascolari.

Bufale nel piatto

Si va affermando l’idea che il cibo faccia male e i cibi “senza” sono diventati un must della cultura contemporanea. Il cibo deprivato nasce negli anni ’50 con il caffé decaffeinato, ma è negli ultimi anni che ha avuto una grande diffusione. Non a caso, sugli scaffali dei supermercati si moltiplicano i prodotti “senza olio di palma”, “senza glutine”, “senza caffeina”, “senza zuccheri”, “senza lattosio”. Nelle confezioni, ormai, c’è scritto tutto quello che non c’è. E c’è più roba che non c’è di quella che c’è. Non c’è dubbio, si tratta di una gigantesca scoperta del marketing: si vendono prodotti grazie a quello che non contengono.

Come andare sul sicuro?

Per ogni problema o particolare esigenza alimentare va assolutamente evitato il “fai da te” e rivolgersi agli Specialisti di riferimento: Medico, Dietologo, Nutrizionista e Dietista.
Il primo criterio di una educazione alimentare sana si basa sulla dieta variata: occorre mangiare di tutto, cambiare spesso e, naturalmente, avere un occhio attento alle quantità ed alla qualità. Il cibo più salutare costa di più. Vero, ma solo nel breve periodo. Comprare fast food può farci risparmiare ma solo nell’immediato. Quanto si risparmia oggi si paga domani per le conseguenze di uno stile di vita poco sano. Comunque, per non sbagliare basta affidarsi alla Dieta Mediterranea. L’unico mito inossidabile nell’alimentazione, spesso messo in discussione da mode e cibi spazzatura. Resta quella più salutare grazie al suo apporto equilibrato di carboidrati, verdura, pesce e carne e la ridotta presenza di grassi. La salute dell’intestino ne beneficia grazie alle fibre presenti nella verdura.

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