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La febbre del pianeta

Autore: Intervista al Prof. Massimo Clementi di Antonella Ciana

In questa intervista il Prof. Massimo Clementi, famoso Virologo, chiarisce la stretta relazione tra la salute dell’ambiente e l’attuale grave epidemia da Coronavirus

L’impatto dell’uomo sul nostro pianeta ha un peso ormai insostenibile, ma tra gli effetti più devastanti ce n’è uno insospettabile, come la liberazione di agenti patogeni che trovano la strada spianata per insediarsi e moltiplicarsi nell’uomo… Come lo spiega?
Premetto che nella prima parte della mia carriera mi sono occupato di malattie virali molto importanti per l’epoca che, tuttavia, erano dovute a virus umani che infettavano l’uomo da molto tempo, come il virus dell’Epatite B, il virus dell’Epatite C oppure come l’HIV che, arrivato all’uomo da diverso tempo, era ormai a tutti gli effetti considerato umano. Da un certo momento in poi ho visto una modificazione della tipologia dei virus emergenti, una modificazione che sostanzialmente ci diceva: attenzione, arrivano all’uomo dei patogeni che possono essere più o meno importanti sia in termini di patologia, sia in termini di diffusione, ma che vengono dal mondo animale. Non solo il Coronavirus, ma anche dei paramyxovirus come Hendra (malattia equina) e come lo stesso virus Ebola, che appartiene a un’altra famiglia, e tutte e tre le epidemie che si sono susseguite di questa famiglia dei Coronavirus: la prima nel 2003, la seconda nel 2013 e poi quella attuale. Allora, mentre io partivo dallo studio dei virus chiedendomi cosa stesse succedendo, la giornalista Eliana Liotta partiva da un interesse verso l’ambiente e cominciava a vedere che le modificazioni ambientali potevano avere un ruolo tra cui quello di risvegliare queste epidemie. Sono tanti gli episodi, anche piccoli, ma basti pensare ad esempio a un pipistrello enorme che si nutre di frutta e poi, in seguito a una deforestazione totale, non troverà più quell’albero da frutto e sarà costretto ad avvicinarsi ai centri abitati, infettando dei cavalli con un virus che in lui alberga e i cavalli, a loro volta, infetteranno l’uomo, dando luogo a un piccolo focolaio epidemico  (in questo caso non di Coronavirus, ma di Hendra). Questo è solo un esempio dei rischi continui che corriamo. È recente la notizia che in Cina hanno identificato un nuovo virus influenzale H1N1 che sembrerebbe del maiale ma in genere, quando vengono fuori questi virus tanto nuovi, essi sono generati da mescolamenti genetici, in cui il virus del maiale mescola il proprio genoma con quello umano o di altra specie, e questo potrebbe creare un’altra epidemia (si sono visti anche i tentativi di questo nuovo virus di infettare l’uomo). Insomma, ci sono tentativi continui in questo senso, e la cosa che si nota in maniera principale è che questi cambiamenti climatici e le devastazioni che abbiamo fatto negli ultimi decenni a livello ambientale stanno generando delle autostrade per questi agenti che sono sempre passati all’uomo, ma che adesso hanno il compito facilitato.

Dobbiamo cominciare ad avere una sensibilità diversa…
La consapevolezza è il primo passo fondamentale, ma è molto importante poter cambiare anche individualmente gli stili di vita, avere una sensibilità diversa anche nei nostri comportamenti quotidiani, modificare le nostre abitudini anche solo leggermente… Non si tratta di non produrre più campi sterminati di soia perché dobbiamo dare da mangiare ai bovini, della cui carne ci nutriamo, nessuno dice che si debba diventare tutti vegetariani, ma anzi si chiede di dare piccoli contributi: inquinare meno, anche viaggiando un po’ meno (prima si prendeva l’aereo e si facevano centinaia di chilometri per una riunione, adesso si è capito che si può evitare)… Poi ci sono le “grandi” decisioni “, quelle che competono ai governi, e non solo, bisogna che l’accordo tra tutti i governi sia il più ampio possibile.  Eliana Liotta ha segnalato uno studio recente sul ritrovamento nel permafrost (che si sta sciogliendo al Polo Nord e in Siberia) di virus giganti che risalgono a oltre tre milioni di anni fa e che sono completamente diversi da quelli attuali: probabilmente non sono più in grado di infettare qualcuno, ma anche il solo rischio teorico che lo scioglimento di un ghiaccio conservi un possibile agente infettante per l’uomo secondo me è una cosa spaventosa, senza contare che le generazioni future vivrebbero senza Polo Nord, una cosa priva di senso.

Tornando all’esempio del pipistrello, qual è il legame tra devastazioni ambientali e malattie dell’uomo?
Ci limitiamo qui a trattare del Coronavirus, che è l’argomento principale di questi tempi. Dunque, nel pipistrello vivono 70 specie diverse di Coronavirus, senza ammalare l’animale. I vari pipistrelli sono mammiferi che volano, sono di tante specie e con abitudini e modi di vita diversi ma che vivono in tutto il mondo. Questi animali (che sono una specie protetta, quindi non è certo possibile sterminarli!) hanno, tra l’altro, anche degli aspetti medici molto interessanti: vivono tanto (anche oltre i 40 anni) e non si ammalano di Cancro. Hanno un sistema immunitario particolare che viene studiato da Specialisti, io l’ho imparato da virologo proprio perché essi sono il serbatoio di questa particolare famiglia di Coronavirus e spargono questi virus alle altre specie animali selvatiche, tant’è che si ricorderà che alcune di queste erano state evidenziate anche nella prima epidemia di Sars che c’è stata nel 2003, avendo infestato alcuni animali. Anche quella volta si era pensato a un animale, denominato pangolino, che nella catena alimentare cinese viene trovato nei supermercati sia per la carne, che pare sia considerata da loro molto pregiata, sia per le squame di cui è ricoperto. Il pangolino pare che non c’entri niente, perché il virus che sta infettando l’uomo in questo momento è quasi uguale, con  una fortissima omologia genetica con un virus che infetta il pipistrello. I pipistrelli quindi hanno un loro habitat che è un habitat selvaggio e sarebbe bene che, salvo in condizioni eccezionali, l’uomo non desse loro fastidio, in particolare non li cacciasse per mangiarli, e soprattutto non privasse queste specie (che tra l’altro ci è necessaria anche per l’impollinazione e per la biodiversità) del loro habitat: perché, se andiamo a distruggere una foresta dove loro vivono, è chiaro che questi cercheranno di vivere in maniera diversa. Ecco, tutto questo dovrebbe far parte ormai, a mio avviso, di una consapevolezza mondiale.


Lei ha affermato di recente che “il Coronavirus si è indebolito ed è meno aggressivo”. Quali sono le dimostrazioni a sostegno di questa tesi?
Questa tesi deriva da un’osservazione clinica. Come Direttore del Laboratorio di Microbiologia, mi confronto costantemente con i colleghi della Terapia Intensiva, delle Medicine, delle Chirurgie… le prime settimane eravamo tutti spaventati dall’inizio aggressivo di questa epidemia. Progressivamente, ci siamo resi conto che in primo luogo i malati da terapia intensiva (cioè all’ultimo stadio della malattia, in insufficienza respiratoria) cominciavano a diminuire progressivamente. Successivamente, cominciavano a diminuire gli accessi al Pronto Soccorso e alle Medicine, nel frattempo cominciava ad incrementare un’altra categoria di Pazienti che erano quelli che si erano infettati ma che non avevano sintomi gravi: non si poteva ancora definirli asintomatici perché magari avevano febbre e anosmia, alcuni dei sintomi classici di questa infezione, e pertanto potevano essere isolati in casa. Ricordo che nel 2009 ci fu una pandemia in Messico, detta “suina”, dovuta a un virus influenzale anch’esso H1N1; ci furono morti, tanti infettati, e la corsa a preparare il vaccino. Ebbene, nel corso di quell’estate il virus circolò per alcuni mesi e poi si svuotò progressivamente di significato clinico. Insieme ad altri colleghi abbiamo fatto degli studi per vedere se il virus mutava: muta un po’, anzi probabilmente la sua caratteristica sta proprio in questa capacità di mutare non in maniera imponente, però nel tempo abbastanza rilevante. Nello studio, ho considerato 100 Pazienti dei primi giorni di marzo e 100 Pazienti degli ultimi giorni di maggio, confrontandoli per la loro carica virale. Il risultato è oggettivamente inequivocabile: la presenza di virus nel loro faringe in marzo era altissima, alla fine di maggio bassissima: se in un tampone del primo gruppo si rilevava un indice di 70mila, nel secondo si aggirava intorno a 700. Una differenza stratosferica. Siamo arrivati ad avere dei Pazienti che sono positivi borderline, cioè proprio lievemente positivi, e non siamo in grado di dire se questi Pazienti siano in grado di infettare ancora. Ad esempio, io ho isolato tante volte questo Coronavirus nei campioni clinici del Paziente nella fase di inizio dell’epidemia, perché era molto facile, mentre ora non riesco più a isolarlo dai campioni clinici perché c’è poco virus e probabilmente quel poco virus non riesce più a darmi una infezione in vitro. Insomma, il cambiamento per ora è nell’intensità, ma non è ancora avvenuta sul piano genetico: il virus diminuisce la carica virale per adattarsi all’ospite.

Scenari futuri di questa evoluzione?
Gli scenari possibili sono tre: a due dò poca possibilità, a un altro credo un po’ di più. Poca possibilità la dò a un ritorno massiccio del tipo seconda ondata che qualcuno ha preconizzato come la Spagnola (ma la Spagnola era nel 1918, quindi erano altri tempi, non c’erano neanche gli antibiotici, la gente moriva di virus ma anche di pneumococco). La seconda possibilità, a cui lo stesso credo poco, è che accada quello che è accaduto nel 2003-2004, e cioè che improvvisamente con l’estate il virus scompaia e poi non riappaia più; questo è successo con la Sars 1. Questo virus invece è circolato molto nel mondo, è ancora molto presente, le epidemie avranno l’andamento che hanno avuto nel nostro Paese e anche negli altri, cioè raggiungeranno un picco e poi discenderanno. A questo punto il virus manterrà una sua circolazione, e quello che è possibile che accada è che ci siano situazioni come quelle che vediamo oggi, cioè questi focolai di “ripresa” dell’infezione molto localizzati, almeno all’inizio, e qui dovremmo essere bravi nell’identificarli il prima possibile, quando sono ancora piccoli, perché un focolaio piccolo si gestisce bene e un focolaio che è diventato grande lo si gestisce peggio;  poi rischia di aprire un fronte più grande, isolare i Pazienti, identificare i soggetti infetti (bisogna fare attenzione, perché adesso i soggetti infetti sono quasi sempre asintomatici, ma comunque vanno isolati perché potrebbero in ogni caso infettare); e così si dovrà accompagnare questa fase piano piano, con la speranza che questi focolai si riducano sempre di più, che vadano verso uno spegnimento e che questa infezione venga portata a spegnersi. Dobbiamo però mettere in conto un periodo di convivenza in questo terzo scenario, che secondo me oggi è il più realistico.

Per approfondire: Eliana Liotta, Massimo Clementi “La rivolta della natura”, Editore La nave di Teseo

 

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