Autore: Prof.ssa Maria Paola LandiniDott. Giuliano Furlini

 

 

La diagnosi

Di solito l’Epatite B si sospetta nella fase acuta per la presenza di ittero, bilirubinuria e feci chiare. Questi segni, però, possono mancare per tutta la fase acuta e cronica facendo sì che non si sospetti l'infezione per molti anni. Il rialzo degli enzimi epatici nel sangue è, invece, presente quasi sempre.
Altro valore molto spesso alterato è quello della bilirubina sia nella sua forma diretta che indiretta. Tutto ciò, però, è valido anche per le altre forme di Epatite virale per cui la diagnosi di Epatite B può essere fatta solamente studiando la presenza, nel sangue, dei markers virali specifici, ovvero:

  • HBsAg: antigene di superficie, positivo al contatto col virus anche nel periodo antecedente alla manifestazione dei segni e sintomi della malattia;
  • HBsAb: anticorpi contro l'antigene di superficie, positivo dopo la guarigione della malattia o nei soggetti vaccinati;
  • HBcAb: anticorpi contro l'antigene del core virale (HBcAg), può esistere di due diverse classi di immunoglobuline: la classe IgM è dosabile in fase acuta mentre la classe IgG lo è per tutta la vita;
  • HBeAg: antigene dell’interno del core virale; indica attività della malattia e della replicazione virale, è presente in fase acuta e in alcuni tipi di portatore cronico attivo. Esiste una variante virale che ne è priva e che è presente nell’80% dei Pazienti italiani;
  • HBeAb: anticorpo contro l'antigene interno del core virale, compare nell'Epatite acuta quando comincia a risolversi; è presente anche nel portatore cronico sia attivo che inattivo;
  • HBV DNA qualitativo: ricerca direttamente la presenza di DNA virale con metodi di amplificazione in vitro. È utilizzata quasi esclusivamente nei donatori di sangue, tessuti e organi solidi;
  • HBV DNA quantitativo: identico al precedente, fornisce, in più, una valutazione di “quanto” virus è presente, misurato in Unità Internazionali (UI o IU). È indispensabile per il monitoraggio della terapia e, in alcuni casi particolarmente complessi, per individuare l’infezione in atto, visto che la sensibilità dei due metodi è praticamente sovrapponibile;
  • Genotipizzazione: utilizza metodi di biologia molecolare per stabilire a quale dei 6 genotipi più diffusi (da A a F) appartiene il virus isolato dai pazienti. In Italia predomina il tipo D, ma, per i flussi migratori in atto, si cominciano ad evidenziare altre varianti. È un test importante per stabilire la durata e la prognosi della terapia che variano al variare del genotipo;
  • Farmacoresistenza: utilizza sempre metodi di biologia molecolare per individuare le varianti virali che risultano resistenti ai farmaci, allo scopo di interrompere terapie non più efficaci o introdurre altre molecole terapeutiche.

La terapia

Si attua secondo protocolli internazionali e Linee Guida per la Pratica Clinica e si somministra ai Pazienti in due situazioni:

  • preventiva, qualora si ritenga che una persona possa aver contratto l’infezione nei due giorni precedenti al fine di impedirla o diminuirne gli effetti (si tratta di iniezioni di Immunoglobuline anti-HBV o anticorpi diretti contro il virus e si inizia la vaccinazione);
  • curativa, nel caso in cui si sia diagnosticata una infezione cronica, al fine di eradicare l’infezione stessa (trattamento con PEG interferone oppure con farmaci antivirali diretti). Tale situazione riguarda una percentuale limitata di casi che beneficia di differenti tipologie di trattamento in funzione del rischio di sviluppare la cirrosi o il carcinoma epatico a breve termine. Fino a pochissimi anni fa l’unico trattamento possibile era basato sull’uso dell’interferone, ancora utilissimo, ma non in grado di determinare la completa guarigione.
    I nuovi farmaci sono analoghi nucleosidici e nucleotidici e rispondono ai nomi di Lamivudina, Adefovir, Entecavir e Tenofovir. Nei confronti della Lamivudina il virus sviluppa abbastanza rapidamente resistenza e può essere usato solo in caso di infezioni recenti e prive di resistenza. L’adefovir, usato inizialmente per contrastare la resistenza al precedente farmaco è, secondo le linee guida 2016, da non più utilizzare per il potenziale danno renale che rischia di causare. Entecavir e Tenofovir, i più recenti, non mostrano anche dopo uso prolungato (5-8 anni), forme di resistenza e pertanto sono i più indicati per bloccare (nel 98-100 % dei casi) la replicazione del virus e i danni ad essa correlati.