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Dipendenza dal gioco, che fare?

Autore: Dott.ssa Simona Scortichini

Se il gioco diventa una modalità irrinunciabile dell’impiego del proprio tempo, può diventare una vera e propria Dipendenza che va prontamente affrontata

Il gioco rappresenta in sé per sé un’attività sana e benefica per l’uomo; alimenta la fantasia, favorisce la socializzazione e costituisce un’utile e piacevole evasione dalla quotidianità per allontanarsi temporaneamente dai doveri e responsabilità che ne fanno parte, piuttosto che provare l’emozione del rischio.
Se consideriamo in particolare il “gioco d’azzardo” che, a partire dall’etimologia, fa riferimento ad una notevole componente “aleatoria” e di “rischio” dovuta al caso e alla “fortuna” più che alle abilità del soggetto giocatore, la situazione si fa particolarmente delicata. E lo è ancor più se il gioco in questione non rappresenta più uno stacco temporaneo dalla vita reale, ma diviene una modalità pervasiva ed alternativa di impiegare il proprio tempo, nella speranza di “sostituire” la propria vita, percepita (più o meno consapevolmente) come frustrante ed insoddisfacente, con un’altra immaginaria e migliore,  attraverso la vincita.
Iniziando da approcci “normali” al gioco (in termini di frequenza, tempo e modalità), con il trascorrere del tempo e attraverso varie “fasi”, può accadere che il giocatore incrementi a tal punto il gioco nella propria vita, da intaccarla davvero, con conseguenze più o meno dannose. Soddisfare ogni volta il forte ed irresistibile impulso al gioco rende il gioco compulsivo e la persona potenzialmente dipendente da esso, sino a perdere progressivamente il controllo e il contatto con la propria realtà personale, familiare, lavorativa e sociale, spesso arrivando a stati talmente angosciosi e di disperazione, che in assenza della capacità di chiedere un aiuto esterno, il rischio suicidario diviene pericolosamente una delle soluzioni concrete “per uscire dal tunnel”. L’epilogo può, dunque, essere drammatico.

Un impulso che crea dipendenza

Se il manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi mentali (DSM IV) inserisce il “Disturbo da Gioco d’azzardo patologico” fra i “Disturbi del controllo degli impulsi”, in quanto il quadro complessivo risulta fortemente caratterizzato dal piacere di giocare sopra ogni cosa, anche della perdita e delle disastrose conseguenze annesse, proprio l’aspetto compulsivo, irrefrenabile e al di fuori del controllo del soggetto rende la dinamica caratterizzante il gioco d’azzardo patologico paragonabile a quella della dipendenza/abuso da sostanza (droga, alcool).
Nonostante l’assenza della sostanza, la dipendenza dal gioco è strettamente assimilabile e a tratti sovrapponibile a quella della dipendenza da droga, alla pari di altre “nuove droghe” (persona, sesso, cibo, lavoro, shopping, internet-rete, sport), come espressione di una “schiavitù ricercata” dominata dal bisogno irrefrenabile e compulsivo di gratificare il “desiderio di”. Alla pari di una dipendenza più canonica (droga, alcool), spinto dalla possibilità di una gratificazione immediata, il giocatore patologico va incontro a fasi di “eccitazione” nella ricerca della possibilità di gioco (piacere di “giocare per giocare”), aumentando la frequenza delle giocate, le somme di denaro investite e il tempo di gioco, così come di “astinenza” (irritabilità e varie forme di alterazione dell’umore quando non può giocare), nell’illusoria convinzione di “avere il controllo” che, per quanto riguarda particolarmente il gioco d’azzardo, diviene la convinzione di “controllare l’incontrollabile”, visto che dipende in larga parte già dal caso.
Parimenti alla dipendenza da sostanze, pur con intensità o modalità differenti, la dipendenza da gioco d’azzardo patologico implica l’interessamento dei sistemi neurotrasmettitoriali coinvolti ad esempio nel controllo degli impulsi e della gratificazione; presenta correlati fisici e psichici nelle varie fasi “da gioco” (eccitazione anche corporea, piuttosto che irritabilità, ansia, sudorazione, nausea e vomito nell’astinenza) e ne condivide le modalità di ricerca ed assunzione, che avvengono in luoghi prestabiliti (stessi bar piuttosto che altro), da soli o in compagnia di appartenenti allo stesso gruppo (di solito persone che condividono lo stesso interesse).
Sebbene non sia affatto detto che un giocatore normale o “sociale”, come viene definito, divenga un “giocatore problematico” (il gioco è compulsivo, in assenza di dipendenza) o peggio, un “giocatore patologico” (il gioco è compulsivo e la persona dipendente da esso), alcune persone caratterizzate da un certo profilo socio-culturale e personale corrono fortemente il rischio di spostarsi da un estremo all’altro di questo continuum, lungo un percorso lento ed insidioso, spesso sotto i nostri occhi.


 

La personalità del giocatore patologico

Sebbene alquanto riduttivo e non esaustivo dell’unicità di ogni persona, il “profilo” del giocatore patologico prevede: sesso maschile (rapporto con le donne di 2:1); livello d’istruzione-formazione medio-basso; disponibilità economica; “familiarità” per il gioco d’azzardo già in preadolescenza (specie fra i genitori, legati a lotto o lotterie); credenza che il destino, più che le proprie abilità, azioni e sforzi personali, determini gli eventi della vita; comorbilità elevata con l’uso di sostanze (64%), disturbi dell’umore (50%) pregressi o concomitanti, il disturbo narcisistico di personalità (allo scopo di difendersi da un profondo senso di inadeguatezza, queste persone sfidano continuamente se stesse per provare il proprio valore personale e le proprie capacità, presentano una scarsa tolleranza alla frustrazione ed un’accentuata sensibilità a vissuti di successo/fallimento personale) e la personalità ad organizzazione borderline (quadro complesso contraddistinto da una marcata “impulsività” e “instabilità” in aree importanti della vita come relazioni, lavoro, salute).
Dagli studi, inoltre, emerge che la personalità del giocatore d’azzardo patologico sia caratterizzata da una stretta associazione fra il tratto impulsivo, la dimensione alessitimica (problematica capacità di “dar voce” ai propri sentimenti ed emozioni, che implica difficoltà sia nel riconoscimento affettivo che nella rappresentazione cognitiva degli stessi, difficoltà nella descrizione dei vissuti emotivi, scarse capacità empatiche e difficoltà nel distinguere fra stato emotivo e sensazione corporea) e pattern di attaccamento insicuro (“modo” di organizzare il rapporto con gli altri, con gli amici, col partner, il grado di fiducia che si ha nel prossimo e sull’adattamento futuro). In quest’ottica, la tendenza all’azione diviene sostitutiva della capacità di riconoscere e mentalizzare stati emotivi che rimangono, dunque, quote di tensione “intrappolata” da evacuare.
Dato uno stile di attaccamento su di sé e sugli altri scarsamente fiducioso e tendente all’evitamento del coinvolgimento emotivo nel raggiungimento dei propri obiettivi e interessi personali, sembra dunque giustificata la ricerca compulsiva di un’attività in grado di risolvere tale tensione “all’esterno”.

I “ricercatori della sensazione rischiosa” hanno una spiccata sensibilità alla noia, intolleranza all’inquietudine non appena la sentono arrivare e “scaricano” attraverso l’eccitazione che la sensazione forte genera: un nuovo Sé esaltato, vittorioso e potente, narcisisticamente trionfante (da sovrapporre ad un’immagine reale di sé svalutata).
Se da un lato la realtà del “giocatore d’azzardo patologico” sembra spesso lontana ed avulsa dai nostri bar, casinò o tabaccherie, il “giocatore patologico” è una persona come tante che frequentano questi posti “comuni”.
Inoltre, se è vero che il gioco d’azzardo non è né buono né cattivo e non può essere condannato a priori, ma dipende dal giudizio personale al riguardo, proprio la forte ambivalenza che contraddistingue la considerazione e la diffusione di questo tipo di attività all’interno del nostro tessuto sociale, di certo non aiuta a fare chiarezza sulla questione. Lo Stato stesso da una parte ne incentiva la fruizione promuovendo ad esempio lotto e lotterie varie e “gratta e vinci”, e tollerandolo all’interno di “spazi definiti” (con slot machines e “macchinette” varie, scommesse, ecc.), dall’altro lo condanna legalmente e moralmente, con tanto di riferimenti al codice penale nelle comunicazioni affisse negli stessi luoghi in questione o promuovendo campagne di prevenzione attraverso i mass media.
Per quanto questi ultimi due elementi citati siano fondamentali, proprio in quei luoghi, oltre che in generale, per favorire la prevenzione ed una maggiore informazione circa i rischi cui il giocatore va incontro esattamente nel momento in cui si appresta ad inserire il suo gettone o a fare la sua scommessa, questo tipo di atteggiamento “globale” è altamente confusivo e “paradossale”.


 

 

I numeri del problema

Quello che è certo sono un paio di numeri, reperibili e visibili ovunque su internet. In Italia nel 2012 sono stati spesi più di 90 miliardi di euro per il gioco d’azzardo lecito, cifra in continuo aumento ogni anno: la quantità di denaro investita dai cittadini è cresciuta dal 2004 al 2012 del 400% passando da 24,8 miliardi a 94 miliardi e rappresentando così un’attività in assoluto altamente redditizia per chi la gestisce (lo Stato nel 2011 ne ha guadagnati 8.000). L’impressionante e preoccupante progressione va di pari passo con il numero di persone che divengono dipendenti da tale tipo di comportamento e con l’ammontare dei costi sociali conseguenti tale piaga: gli studi epidemiologici dicono che il numero di giocatori patologici nella nostra nazione si aggira tra gli 800.000 ed un milione, con una percentuale variabile fra l’1 e il 3 % annuo ed ogni anno vi sono dai 5,5 ai 6,6 miliardi di euro di costi complessivi per la società dovuti al gioco patologico. A tale proposito, vale la pena soffermarsi sul metodo di calcolo di questi “costi sociali” per il significato che essi hanno: una ripercussione fortemente negativa e spesso drammatica sulla qualità di vita delle persone coinvolte e delle loro famiglie. Il costo complessivo annuo è dato dalla somma dei costi sanitari “diretti”, come la frequenza di ricorso al Medico di base del 48% più alta rispetto ai non giocatori, interventi ambulatoriali psicologici, ricoveri sanitari, cure specialistiche per la dipendenza ed “indiretti” (si fa per dire), come la perdita di performance lavorativa del 28% maggiore rispetto ai non giocatori, perdita di reddito, accumulo di debiti, ecc.

Cosa si può fare?

Il tentativo di sintesi attuato è necessariamente non esaustivo rispetto all’argomento trattato, se non nella dimensione della sua “complessità”. Data la numerosità delle variabili intervenienti sul fenomeno trattato, interne ed esterne, approcciare il problema “gioco d’azzardo patologico”, come altre forme di dipendenza comportamentale, dovrebbe poter prevedere una presa in carico congiunta della persona sia a livello dell’individuo, della comunità che, potendo, familiare. Se consideriamo un continuum “possibile” di intervento psicologico, si va dall’intervento terapeutico sul singolo alla prevenzione e promozione di una mentalità di gioco responsabile, che riporti il gioco alle sue caratteristiche positive e peculiari di divertimento ed occasione di socializzazione. La persona può trarre beneficio sia dall’intervento promosso tramite il “gruppo”, gruppi di auto aiuto dedicati (modello alcolisti anonimi), gruppi psicoeducativi che possano prevedere la programmazione ed il raggiungimento di step intermedi rispetto all’astensione completa, diminuendo così la possibilità di fallimento terapeutico o terapia familiare, sia dall’intervento “individuale”.
In questo senso, la terapia psicoanaliticamente orientata può essere utile nella comprensione delle dinamiche interne all’individuo, affinché la regolazione degli impulsi, l’espressione emotiva e la modulazione degli affetti non siano agiti tramite l’impulsività comportamentale, ma vissuti in modo più maturo e funzionale.
La terapia farmacologica, invece, incentrata sulle caratteristiche della persona e in associazione a quella individuale o di gruppo, è utile nelle fasi pericolose e critiche, o nei momenti in cui la quotidianità è difficile da sostenere (problemi disforici, economici, familiari), per ristabilire un equilibrio funzionale ad essa.
Fondamentale è l’esortazione alla persona giocatrice di riuscire a “chiedere aiuto”, dato che è disponibile, nel momento in cui abbia anche solo il dubbio di perdere il controllo del gioco: quello che accade non dipende unicamente da consapevolezza o volontà e non è “gestibile” da soli. 

 

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